In questo blog intendo offrire una documentazione sulla mia attività nel campo della scrittura e delle arti visive.

Il titolo, La riga delfina, è riferito all'incipit di una mia poesia ("Mio minimo oceano di croci") il cui testo si può leggere in una delle "pagine" qui accanto.


Piccolo inventario degli specchi


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qualche brano del libro



Qualche recensione



Alfonso Lentini,
specchi, ombre e altre riflessioni
di Alessandro Fo
(“Alias”, inserto culturale del quotidiano “Il Manifesto”, sabato 3 maggio 2003)


 Alfonso Lentini, Piccolo inventario degli specchi, prefazione di Antonio Castronuovo, Viterbo, Stampa Alternativa, 2003, pp. 144, euro 9,00.

«Senza saperlo, viviamo in un mondo di specchi… Forse la stessa fibra del cosmo, la sua più profonda natura, è intessuta di specchi. Quella dell’Universo è una struttura specchiante?». Ispirato da questo sospetto-sensazione, Alfonso Lentini, fantasista della scrittura e delle arti visive, procede a un «piccolo inventario» di quanto nella nostra esistenza e memoria ‘riflette’ e ‘fa riflettere’. E qui «inventario» significa non soltanto «repertorio», ma ricerca, individuazione, scoperta al di là del consueto e perfino del già noto, aggettando sul concetto di creazione.
Consegnato a una collana «Fiabesca» che spazia da Carroll agli aforismi cinici, da amori dell’India ai ricordi di Tolstoj e all’Amleto, il puro e folle libretto di Lentini setaccia il mondo, la sua storia, le immagini che lo hanno nutrito, stimolato e mosso a imprese come radere un cliente, ma anche trattenerne il volto (l’anima?), catturare i suoni (così il settecentesco specchio parlante nel bavarese castello di Lohr), solidificare un raggio di luna (gli alchimisti del Cinquecento a Praga) o più semplicemente, su tela, le fattezze della Gioconda.
Il movente scientifico-poetico è qui la caccia alla Meraviglia. E ovunque si annidi la subdola preda, incantevole quanto pericolosa, Lentini tende le maliose reti di una prosa semplice e limpida, ingannevole specchio di Alice che, dietro un’apparente superficie uniforme nasconda abissi non preventivabili. Così la villa dei mostri a Bagheria. O, a Sciacca, il giardino dello scultore pazzo Filippo Bentivegna, Signore delle Teste che febbrilmente istoriava su pietre, tronchi, pelami canini: la sua toccante vicenda trama un altro onirico libro di Lentini che qui si rifrange (La chiave dell’incanto, Pungitopo 1997).
Archeologia di questi processi sono le storie di Narciso ed Eco, accomunati da un destino di onde riverberanti ora volti ora voci; estrema propaggine nell’oggi, i siti palindromici di internet. Parenti degli specchi sono le scimmie, i miraggi, la memoria, gli androgini, le ombre. E ti chiedi se Paolo, quando scrive «ora vediamo tramite uno specchio, in un enigma» non distilli in alchimie cristiane il platonico mito della caverna, per sempre acquisito all’arredo mentale d’occidente.
Già, perché c’è di più, molto di più. «Penso alla filosofia di Berkeley e al suo grande fascino: esistiamo perché siamo pensati, perché ci riflettiamo nel pensiero di un altro» (p. 53). E addirittura: se davvero «siamo un calco, il riflesso», l’«immagine e somiglianza» di Dio, «l’uomo viene alla luce all’interno di un gioco di specchi» (p. 15). Poi inventa la parola: e non poteva che essere così, se in principio era il Verbo. Ma, di nuovo, la parola è «riflesso, immagine specchiata della cosa alla quale si riferisce». «Le parole (e dunque i libri) hanno natura specchiante; riflettono, reale o fantastica che sia, una dimensione a loro esterna» (p. 11). Per questi fantastici teoremi, si deduce che il libro di Lentini (che dalla prima riga n’è con understatement consapevole) è esso stesso uno specchio. «Minimo» ma, per le leggi di rifrazione, infinito, di tutti gli specchi, di tutti gli spicchi del cosmo.

Alessandro Fo





Recensione di Paolo Maccari
pubblicata sulla rivista “L’immaginazione” 
(Ed. Manni, Lecce, n. 199 giugno/luglio 2003)

“La mosca ronza / sulla parola mosca / la stuzzica per farla / volare sulla carta / la mosca ignora / che quell’altra mosca / -bisillabo inchiostro sulla carta - / non è più sua compagna / ma nostra.”: è una poesia di Bartolo Cattafi, se non tra le sue più belle memorabile quanto meno perché incentrata apertamente su un tema decisivo nell’opera del poeta siciliano, la natura infida e misteriosa del segno, l’ambigua, scivolosa alterità del significante. Leggendo il nuovo libro di Alfonso Lentini, Piccolo inventario di specchi, in più tratti mi sono riaffiorati alla memoria questi versi: il fatto è che Lentini, che pure onora il titolo della sua deliziosa operetta fino in fondo, offrendoci una godibile e dotta rassegna dei luoghi letterari, o storici – o del mito – in cui si profila l’enigmatica sagoma dello specchio, non si arresta affatto al semplice assemblaggio di reminiscenze, né limita il suo intervento d’autore a un commento erudito. Il suo fine, e il risultato più notevole del suo lavoro, sono piuttosto da identificare nell’incessante scandaglio di tutte le possibili emanazioni di significato che dalla “superficie specchiante” scaturiscono. In primo luogo assistiamo all’allargamento abnorme del campo d’indagine, che deborda dal suo oggetto in senso proprio a ogni oggetto che in qualche modo possegga la caratteristica peculiare di riflettere, di duplicare. Basta scorrere le prime righe dell’Incipit: “Beh, attento, pure il libro che stai leggendo in questo momento è uno specchio (…). Le parole (e dunque i libri) hanno natura specchiante; riflettono, reale o fantastica che sia, una dimensione a loro esterna.”. Eccoci dunque a Cattafi: la mosca tenta di scuotere dall’inerzia a cui è inchiodata la parola che la rispecchia: la cosa significata cerca cioè di far partecipare della sua essenza di essere animato il significante. È un conato utopico: verità e menzogna, rispettivamente, dividono le due mosche. A questo punto compare uno scarto geniale. Il segno della mosca è compagno dell’uomo, è più vicino all’uomo che all’oggetto a cui dovrebbe aderire. Fa parte del dominio della falsità, in cui l’uomo stesso si dibatte.
E Lentini, da parte sua, riesce a condurci - grazie a una scrittura disponibile all’accensione lirica come alla sorniona chiusa in minore, dotata di una leggerezza di tocco e di una svagata ironia attualizzante e distaccata a un tempo - attraverso una serie gustosissima di aneddoti culturali e scientifici, all’interno di questa realtà-finzione, saggiando a volta a volta dei vari specchi (siano essi la parola, lo stagno in cui si scopre e si innamora Narciso, la luna, gli occhi dell’altro, un quadro celeberrimo…) l’implacabile durezza o la sorprendente morbidezza da membrana.
La gamma di eventualità risulta infinita: anche l’uomo, in ragione della sua “simmetria bilaterale”, è un essere doppio, “come se metà della mia persona fosse specchiatura dell’altro”. E se ci spostiamo dalla realtà sensibile alla sfera interiore, cozziamo in un rifrangersi quasi insostenibile di specchi: Vitangelo Moscarda, il protagonista di Uno nessuno centomila “guardando la propria immagine riflessa vorrebbe ricostruirsi un’identità. Ma lo specchio lo allontana da sé. Lo pianta di fronte al suo labirinto interiore”. E’ un’esperienza comune a una nutritissima schiera di eroi moderni, cambia soltanto la scelta (più spesso l’imposizione) del tipo di specchio; in ogni caso, si fa presto, per rimanere nell’ambito, a sprofondare in una vertiginosa mise en abîme: lo specchio come origine di verità insostenibili, eppure munito di un altrettanto insostenibile potere seduttivo, misterioso ornamento barocco, superficie dalle immense profondità (innumerevoli volte popolate dagli scrittori: e Lentini rammenta la bellissima favola di Bontempelli, La scacchiera davanti allo specchio; inquietante e ambigua come, con apparente paradosso, tutti i grandi libri per l’infanzia), antidoto al più sensuale horror vacui e insieme austero memento della fragilità umana. E insomma, come è noto, lo specchio ha questo di tremendo: la noncurante sincerità. L’impulso a ritrarsi alla vista di sé, a ignorarsi, non può non accompagnare ogni acutezza di sguardo. Eppure, lo sottolinea Antonio Castronuovo nella prefazione, “le pagine di questo Piccolo inventario di specchi sono (…) una buona introduzione all’umiltà, al gesto di guardarsi e di farsi guardare, accettando di essere sottoposti al giudizio degli altri.”. Del resto, in uno dei momenti più poeticamente ispirati, Lentini parla di una “strana nostalgia”, “un blues triste cantato in coro da tutte le fibre dell’universo”: “Perduti per le vie del mondo, in mezzo al traffico autostradale, per i sentieri di montagna, attraversando le piste dei carovanieri, calpestando trazzere polverose, vaghiamo senza meta e ciascuno tiene in mano la sua pagnotta dimezzata, il suo segnale; chissà dov’è finita l’altra metà”. Ma per concludere con una sentenza che è insieme un invito e un auspicio: “Ogni cosa è metà. Per riacquistare completezza ha bisogno di uno specchio”.
Paolo Maccari
  

Recensione di Antonio Pane 
pubblicata su "L'indice dei libri del mese", luglio 2003

Alfonso Lentini è un artista plurale. Possiede (o ne è posseduto) un tenace grumolo di assilli da rifrangere di volta in volta sulla tavolozza (o supporti affini), sulla pagina o in variegati esperimenti verbo-visuali, producendo opere che resistono alle comuni classificazioni (si veda, per tutte, il racconto-saggio La chiave dell'incanto, suggestiva “guida” al “giardino di pietra” di Filippo Bentivegna Signore delle Teste). Il riverbero si raddoppia, anzi si moltiplica all’infinito, nel suo più recente lavoro: una incursione “mordi e fuggi” nell’ambiguo dominio dello Specchio, con un ricco bottino di «sciabolate di luce», «gibigianne» e ogni genere di metaforici barbagli. Il tema è temibile quanto abusato: il «cosmico pettegolezzo di condominio» che fa dell’intero Universo (a partire, mettiamo, dalla doppia elica del dna) una «struttura specchiante». Saggiamente l’autore lo attraversa di sghembo, pattinandovi con  l’attenzione distratta di un flaneur pronto a meravigliarsi (salvo il beneficio, appunto, dell’inventario) ad ogni passo; ripetendo in qualche modo la strategia del bambino che vuole sorprendere la fuga delle cose «assorbite» dal suo specchietto. Lo strumento dell’adulto non è così ingenuo; foggiato sul presupposto che «anche solo l’idea di elencarne una piccola parte è assurda», sarà solo un assaggio, uno specimen: anch’esso dunque, a ben riflettere, discendente di specchi. Un contenitore che richiama la bancarella del rigattiere, dove si vanno ammucchiando, con calcolata casualità, grappoli di idee, libri, personaggi, autori, oggetti: i miti “fondativi” di Narciso e di Eco; l’alchimia, l’anatomia, l’etologia, l’informatica; la Bibbia e le Upanishad; Biancaneve e Gulliver, il Golem e la Medusa; Platone e Archimede; Calderon della Barca, Kant, Pirandello, Borges, Calvino, Manganelli, Wilkcok; Leonardo, Giorgione, Velàsquez, Picasso; lo specchietto retrovisore e la fotocopiatrice. Un mercatino che sembra concrescere, griffato di calviniana leggerezza, da un fondo oscuro di ossessioni primarie su cui si sovrappongono la pazienza dell’insegnante impegnato a impartire le sue “riflessioni” a un’aula refrattaria, i piaceri dell’erudizione “a tutto campo”, le malizie dell’intenditore, il divertimento creativo. Il commercio si rivela, è il caso di dire, catartico: scambiando l’arcaica angoscia (di essere ingoiati, fagocitati, risucchiati) con curiosità da enciclopedia popolare, sentenze da pamphlet, schegge di rêveries, ne ricava miracolosi anticorpi. «Stormi di specchi volano intorno agli umani. Starnazzano e ci sfiorano con l’ala. Ci spiano». Ma ci si potrà consolare irridendo quei veri «abbuffoni» che sono le superfici convesse: «esseri panciuti, sporgono in avanti la loro epidermide lucida, con supponenza»; o perdendosi senza timore nella sognante Venezia della ragazza Lucilla: «un caleidoscopio dentro cui puoi entrare con tutta te stessa, un caleidoscopio scontornato, vivo»; perdonando persino il refuso che anamorfizza beffardo (sulla punta dell’Indice) «riflessi» in «tiflessi».

Antonio Pane





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